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mercoledì 3 luglio 2013

I maestri, capitolo 4: Jacques Brel

Questo Maestro ha un'importanza particolare per Testuggini. Buona parte del CD risente della sua influenza, a partire dalla canzone che apre il CD: Tamperdù. Il tempo perduto che cito nel titolo non è infatti proustiano, ma “brelliano”: è “le temps perdu a savoir comment” che il belga canta in Ne me quitte pas, il primo brano di Brel a cui mi accostai.

Mi sarebbe piaciuto a questo punto mettere il video di Brel che canta Ne me quitte pas, ma purtroppo youtube non consente di incorporare i video del Grand Jacques per rivendicazioni di copyright. Che è giusto e tutto quel che vuoi, ma si risolve solo che ci incollo un link in più, voi il video lo vedete lo stesso e il mio blog è meno bellino da vedere. E allora ci metto un'immagine, va'.

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Il pezzo mi riporta alla memoria una ragazza, una sconfitta in amore, tante sigarette fumate con rabbia. Per quello straordinario potere che le canzoni hanno, di fissarsi nel tempo e ripetersi, riportando a galla il tempo perduto come una madeleine intangibile.
Il mio primo incontro con Brel avvenne al liceo, ai tempi di Napster. Su Napster però trovai pochi brani, e solo alcuni anni dopo, attorno al 2005, riuscii a procurarmi la discografia completa del Grand Jacques tramite eMule.


Momento nostaglia: i bei tempi
in cui tra avviare il PC, connetterti a internet
e avviare il programma ti era già partito
il pomeriggio (e avevi fatto solo latino)

De André asseriva che Jacques Brel non si potesse solo sentire, che bisognasse anche vederlo: io non sono mai stato d'accordo. Certo, la sua gestualità, la sua presenza scenica, era un valore aggiunto non indifferente. Ma i suoi dischi sono altrettanto eccezionali: i suoi arrangiamenti sono invecchiati, senza dubbio, ma non il suo songwriting; né la sua capacità di coinvolgere anche con la sola voce, di modificare il senso di una parola con una lieve intonazione, con un'incespicatura imprevista. Brel è un interprete che dà la pelle d'oca a ogni ascolto. Parlo per me, ma non solo, credo.

jacques brel chitarra baffi
Brel ai tempi del debutto
sfoggia un paio di baffetti alla Gable



A marzo di quest'anno ho tenuto una lezione-concerto dedicata a Jacques Brel. Si tratta di una delle tante attività organizzate dalla Rigoletto Records, l'associazione di cantautori e musicisti di cui faccio parte. Mi è già capitato di parlarvene, in occasione della presentazione della nostra compilation e della festa della musica. Un'altra delle belle iniziative che abbiamo avviato è stata quella delle lezioni-concerto in biblioteca, promosse in particolare da Alberto Padovani. Sono stato fiero di presentare, a quella lezione, la mia personale traduzione di Le plat pays, che ho intitolato Questa terra, e che è stata inserita nella scaletta di Testuggini ai tempi supplementari.



Nel cd ho voluto rispettare le idee di arrangiamento che c'erano alla base del brano di Brel. Il pezzo era completamente basato su voce e chitarra (è l'unico brano di Brel che lui ha continuato ad accompagnare con la chitarra per tutta la sua carriera), con qualche linea melodica di Ondes martenot (ho cercato di ricalcarle il più fedelmente possibile) e l'ingresso del pieno d'orchestra, come da manuale, sull'ultima strofa.
Brel è stato tra i principali ispiratori della prima cosiddetta "scuola genovese" di cantautori: Tenco, Bindi, Lauzi, Paoli. Autori che hanno gettato le basi di una letteratura della canzone nel cui solco cerco di pormi; lo stesso Guccini racconta che:

Prima di Dylan, la tendenza di tutti [...] era di guardare alla Francia. [...] le atmosfere non potevano non essere che (sic) un po' decadenti ed esistenziali.

Dunque, riallacciarmi al Grand Jacques era un passo inevitabile. Per la nostra Storia, in quanto cantautori; e per la mia storia di piccolo cantautore di provincia, ammaliato da una personalità artistica tanto forte.
Brel abbandonò le scene musicali nel 1966, per seguire altre vie: prima il cinema, poi il viaggio, lo chiamarono a sé. Non fece mai una vera e propria rentrée, ma nel 1977, sapendo di non avere molto da vivere, pubblicò un ultimo disco. Una sorta di testamento spirituale, che veniva aperto da un brano per sole voce e fisarmonica. Il brano è il primo dal sapore smaccatamente politico di Jacques Brél, ed è dedicato a Jean Jaurés, padre fondatore del socialismo francese. È uno dei brani di Brel che amo di più; e visto che Youtube non permette di linkare i video di Brel, ne linko un altro mio, che canto questo pezzo.



L'appuntamento è per il prossimo post, con alcune date nuove da comunicarvi. L'estate non arresta le Testuggini!

mercoledì 19 giugno 2013

I maestri, capitolo 3: intervista a Max Manfredi

Se con Guccini ci sono cresciuto, se Cohen mi ha travolto senza preavviso, Max Manfredi è stato il Maestro che mi sono scelto nella (presunta) maturità. La sua abilità nel giocare con le parole è impreziosita dal suo modo di comporre, che a differenza dei cantautori con cui son cresciuto non si limita a pochi accordi asserviti al testo, ma è fatto di armonie complesse e tempi dispari che con le parole si intersecano, limonano, e tirano di scherma.
Grazie a internet ho scoperto questo grande autore, e sempre grazie a internet sono in contatto diretto con Max più o meno dal 2006; ci sentiamo spesso e ci vediamo di rado; ma una di quelle rare volte che ci siam visti mi ha voluto (bontà sua) a suonare il violino al suo fianco in Cattedrali, che è uno miei brani preferiti.



Da sinistra: Fabrizio Ugas, il sottoscritto in gioventù,
Max Manfredi e Marco Spiccio



Cattedrali (senza il mio violino, tranquilli)



Max è una persona molto disponibile, e ha accettato di essere intervistato per il blog di Testuggini. Gli ho chiesto se potevo scrivere di lui, ha accettato e s'è offerto di darmi una mano. Naturalmente ho colto la palla al balzo.



RR: Ho un sacco di cose da chiederti, e fatico a decidere da dove partire. Proviamo da qui: avendoti letto e ascoltato per tanto tempo, ho sempre avuto l'impressione netta che ci fosse molta musica nella tua letteratura, e molta letteratura nella tua musica.
MM: Bisogna avere un concetto elastico di letteratura. Letteratura è tutto quello che è stato scritto, e tutto quello che si scrive. In un certo senso anche quel che è scritto su un muro o un biglietto appeso a un negozio fanno letteratura: infatti - altra caratteristica - questi reperti vengono tramandati, vengono memorizzati, magari attraverso una foto su facebook. Oggi tutto è memorizzabile e tramandabile, quindi tutto è letteratura, tutto è materiale letterario. Che poi valga la pena di leggerlo, questo è altro discorso.
Le canzoni sono letteratura anche musicale. Spesso si riferiscono ad altre letterature, anzi, direi sempre; il che non vuol dire, ovviamente, che non siano ANCHE autonome. Letterature letterarie e musicali; come tutte le altre discipline inventive, dalle più sublimi alle più abiette, se è lecito far questi distinguo (io penso che oggi sia insieme illecito e doveroso).

RR: D'altronde, ti richiami consciamente al modello dei trovatori, per i quali musica e poesia erano un tutt'uno... e mi sembra che il set di molte tue canzoni sia il mondo di "vecchio regime" che ha conosciuto la nascita della poesia trobadorica.
MM: Mah, se intendi il mondo medievale dico di no, non è il mio set; anche se alcuni elementi medievali li trovi in quel che scrivo, così come trovi elementi medievali nell'urbanistica e nell'architettura di città europee. Nel mio set ideale vi sono momenti di trovarobato medievale, non c'è dubbio. Ma anche molto di altri secoli, e chissà ancora cosa.
Ma i trovatori dicevano, in effetti, che "un verso senza musica è come un mulino senz'acqua". Ma questo succedeva in determinate aree, mentre in altri contesti la poesia veniva letta ad alta voce. Vero è che la rarità della scrittura non permetteva, allora, di fare a meno del performer. La separazione, l'infelicissimo divorzio fra musica e parola scritta viene dopo. E non sarà mai definitivo.
Mitologicamente sì, una delle mie radici è lì: nella giulleria dei chierici vaganti e nelle canzoni dei trovatori (oggi si direbbe "trovatorato", meno male che nessuno l'ha ancora fatto).



max manfredi limerick trita provincia live teatro duse
bibliografia ufficiale e filmografia ufficiosa di Max Manfredi


RR: Anche la commistione di stili che metti in opera, miscelando elementi cosiddetti "colti" con altri popolari richiama un immaginario in bilico tra il Medioevo e la prima età moderna. Quanto di quei tempi, dal tuo punto di vista, si rispecchia nei nostri giorni?
MM: Direi piuttosto tra il medioevo e il cyberpunk.
La miscela di colto e volgare, di antico e nuovo, non l'ho inventata io, è presente in tutta la letteratura, compresi i fumetti. C'è in Dante e c'è in Ratman. C'è persino negli spot pubblicitari. Quando si mostra Mozart intento a scrivere sinfonie sulla carta igienica, non è forse un infelice contrappasso della sua felice coprolalìa?

RR: Allo stesso tempo la tua maniera di comporre (liricamente, armonicamente, melodicamente) risulta estremamente contemporanea.
MM: Io dico sempre che sono contemporaneo... a me stesso. E siccome vivo la contemporaneità, con tutti i suoi attriti, scrivo "dalla" contemporaneità. Ma è altrettanto vero che scrivo da un "non tempo", perché la scrittura è un meccanismo sottraente.
Penso di essere, nella musica, uno che si nutre di nostalgie. Si ha anche nostalgia del presente. Ma soprattutto, se parliamo di musica "classica", del passato prossimo!
E poi io non sono, a rigore, un musicista, ma proprio per questo do alla musica delle mie canzoni un'importanza fondamentale. Altro che "piatto di portata" delle parole, come diceva Wolf Biermann parlando della chanson francese!
Se devo scrivere parole scrivo prose o poesie. Ma ultimamente credo di aver smesso. Direi che son più portato alle conversazioni scritte, come questa.

RR: Nel tuo ultimo cd Luna persa, ma anche ne L'intagliatore di Santi, hai lavorato su sonorità e ritmi di cui si incontrano pochi esempi nella letteratura della canzone cosiddetta "d'autore".
MM: Magari li incontri, ma devi andarteli a cercare; e poi non li becchi tutti insieme in un disco! In questo senso Luna persa è un kolossal. Un kolossal che magari ti capita di andare a vedere distribuito in un cinema parrocchiale! E dici "come facevo a non conoscerlo?"




L'emozionante avventura di Luna Persa,
brano che dà il titolo al disco



Continua MM: A volte si parla di "canzone d'autore" e non si sa che s'intende, ovvero non la si concreta in esempi individuali.
Se prendi quelli più interessanti, spesso lo sono anche dal punto di vista delle scelte strumentali. Anche restando in Italia, ce n'è dei più disparati, dal Paolo Conte che "ricrea" le orchestrine liofilizzate dal tempo ma vivissime per lo spazio della sua evocazione; al primo lavoro di Alan Sorrenti, che accatastava insieme lirica ingenua, "progressive", vocalità non immediatamente riconoscibile come italiana - ma in realtà in bilico fra i falsettisti rinascimentali e cantanti come Peter Hammil o Tim Buckley.
E che dire del lavoro di De André e Pagani, che in Creuza de ma trasportano strutture sostanzialmente blues nell'alveo delle sonorità della musica mediterranea, utilizzando strumenti che provengono dalle tradizioni etniche? E Bob Dylan o Neil Young, "innovativi" rispetto al folk che tutti si aspettavano per il solo fatto di mettersi a suonare la chitarra elettrica? O le "folie" di Frank Zappa o Captain Beefheart?

Ognuno di noi ha una consapevolezza autoctona, di quel che può cantare.

Ascoltando gli artisti americani, ma anche anglosassoni, noto sempre più l'ingerenza, se non la matrice, del blues. In Italia il blues, per questioni linguistiche, diventa subito parodico e spesso - per motivi sillabici - predilige il dialetto.
Dico che noi magari il blues possiamo pensare di provarlo psicologicamente, ma la nostra lingua non si concede appieno alle sue esigenze.
Conosciamo altre tradizioni musicali, il tango, il fado, il rebetiko, la musica klezmer, quella balcanica. È un caleidoscopio armonico che, negli ultimi decenni, attraverso la rete, è disponibile a tutte le mode e a tutti gli ascolti. È questo il terreno in cui, per forza, ci muoviamo. Ed è, per sua natura, un terreno illimitato, che possiamo frequentare molto limitatamente. È questo il mare solcato anche dalla "piccola navicella" di Luna persa. Altro che "cantautorato". O, come ho letto di recente, "post-cantautorato"!

RR: La domanda che ti faccio a questo punto è: cosa secondo te è innovativo in musica oggi? E ancora: non trovi anche tu che l'aggettivo "innovativo" puzzi tremendamente di vecchio?
MM: Lo sostengo da anni, del resto quel che diciamo è filologicamente e filosoficamente corretto. Solo un cretino può pensare all'arte in senso vettoriale e "progressivo" (ma anche all'etica, alla politica o alla cucina). Come giustamente rimarchi, la contrapposizione categorica fra "nuovo" e "vecchio" fa parte della seconda di queste categorie: è vecchia. Nella fattispecie, si può far risalire ad un'origine romantica prima, positivista poi. Vecchissima, quindi, dal punto di vista cronologico e storico.
Temo però che molti, nel farsi paladini di questa concezione, intendano - più sciaguratamente - affermare un'esigenza di "attualizzazione" dell'operato inventivo. Il che è fantastico perché sostanzialmente può venire sintetizzato così: "siccome questa è una società di merda, anche l'arte deve parlare con lo stesso linguaggio di questa società, cioè essere un'arte di merda. Solo così potrò scodinzolare amaramente invece che abbaiare all'indirizzo di ciò che già mi pare di riconoscere".

Con la differenza che i cani abbaiano, appunto, a quelli che NON riconoscono.
Molti criticucoli, invece, abbaiano a quel che - poveretti - CREDONO di riconoscere.
Per fortuna nostra e, soprattutto, loro, non tutti coloro che si occupano di "critica" musicale son così.
Il termine stesso, "critica", mi fa venire l'orticaria (Marx lo prese amabilmente in giro in un suo saggio, "Critica della critica critica").
Qui però il discorso si farebbe lungo, e dall'apparenza - non certo alla sostanza - erudito.
Se vuoi lo affrontiamo, anche solo per tua curiosità. Ma ci vuole una pagina intera.

Per rispondere invece all'altra tua domanda, su quel che può definirsi innovativo o no, credo che si sia verificata ultimamente una specie di rivoluzione copernicana. Non più la sperimentazione si riferisce a un dato di fatto scientifico universale, com'era almeno pretesa dell'arte moderna, fin dai tempi in cui avvertiva la sacrosanta necessità di emanciparsi da canoni tradizionali. No, adesso è diventata un fatto personale, che ha a che fare con esperienze delimitate di individui o di pubblico. Se percorro una strada artistica che IO non ho ancora percorso, sono innovativo e sperimentale (anche se è ovvio che altri l'hanno già fatto prima).
Sono innovativo se mischio insieme elementi che, contestualmente, non ci si aspettava di vedere apparire.
Oppure se utilizzo tecnologie che, fino a poco tempo fa, erano appannaggio di altre culture.
E così mentre le sperimentazioni all'IRCAM lo erano in senso tecnico e "universale", o innovativi erano strumenti quali il Theremin o il Trauthonium, o i Moog, la loro utilizzazione e volgarizzazione nella musica pop è stata innovativa in senso relativo, relativo alla musica leggera.
Oppure la bulimìa strumentale di Tom Waits è stata innovativa relativamente alla canzone d'autore folk americana (ma non ad altre forme di musica leggera come i musical, ad esempio).
Allo stesso modo, si potrebbe leggere come innovativa la mia scelta, nel prossimo mio album, di frequentare sonorità vintage, trasferendo timbri abituali nel "progressive" alla canzone (cosiddetta d'autore), alla canzone che dice anche. Ma si tratta di una sperimentazione mia personale e di una "novità" del tutto relativa.
Che poi mi trovi a condividere, se capita, suoni con gruppi attuali di Doom metal o coi Daft Punk, è un caso. Anche i musicisti del "tuo" Francesco Guccini registrarono Radici con l'entusiasmo dei neofiti alle prese con il moog e con l'orecchio attento ai gruppi della pop music di allora. Nel bene e nel male, parte della freschezza del disco sta proprio in questo insolito connubio fra intenzione pop e testi insieme naif e profondamente letterari, sia - come dicevo all'inizio, rispondendo alla tua prima domanda - in quanto si riferiscono a molte letterature precedenti, con fior di citazioni, sia in quanto fondatori di una letteratura autonoma.


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Max Manfredi live con il Quintetto Dremong
alla Festa dell'Inquietudine 2013 a Finale Ligure
(dal profilo facebook di Max)



RR: Avevo iniziato con due domande, lunghe, da cui intavolare un discorso in fieri; le hai sapute trasformare in tanti input brevi, che aprono discorsi lunghi, succosi, avvincenti. Ce ne sarebbero parecchi da affrontare a partire da quel che mi hai scritto. Non voglio però abusare del tuo tempo, perciò in chiusura mi limito alla domanda classica di fine intervista: progetti per il futuro? Mi hai già parlato di due attività parallele, con il quintetto Dremong da un lato e con Giorgio Li Calzi dall'altro; tra l'altro Amore di Dublino, primo assaggio del lavoro con Li Calzi, ha avuto un ottimo riscontro sul blog de Il fatto quotidiano.
E infine, se ti va di affrontare il discorso della critica che abbiamo lasciato in sospeso, sarò ben lieto di dedicargli un post a parte sul blog di Testuggini. Partendo magari proprio da Marx, che hai nominato; che pur dall'alto del suo sommo intelletto (e in qualche modo della sua preveggenza) rimase tra le maglie ottocentesche dell'idea che la storia avesse uno scopo, che procedesse insomma in maniera vettoriale e progressiva verso una realizzazione necessaria.

MM: Hai ragione, infatti la mia citazione di Marx era paradossale. Non ne sono uno studioso. So che lui voleva, agognava, nella società senza classi, la fine della storia. La Aufhebung hegeliana, se ben ricordo, nella sua dialettica, abolisce ciò che pone in evidenza (del resto aufheben in tedesco significa sia abolire che sollevare. E c'era un gioco di parole antinazista che diceva "Aufgehobene Rechte" e si poteva tradurre sia "destre alzate" sia "diritti aboliti").
Per quanto riguarda il Romanticismo, pensavo, da studente, che la linea ciclica e orizzontale della storia (quella che, mi pare, porterà all'idea dell'Eterno ritorno nietzschano) si congiungesse con quella progressiva e vettoriale, incontrandosi, caso strano, nel simbolo di una Croce.
Progetti? Sì, son questi due album differenti. Uno mio, fatto coi miei musicisti: qualcuno abituale, qualcuno nuovo. E l'altro fatto in coppia con Giorgio Li Calzi. Come produrremo, e con chi, quest'ultimo, non so. Per il primo voglio mettere in piedi un'ipotesi di fundraising.
In ogni caso non cascherò nell'equivoco di produrre dischi o far concerti per la mia soddisfazione, e magari a mie spese. Se non verificassi un guadagno reale e, questo sì, progressivo, smetterei anch'io, come hanno fatto, per motivi diversi, altri molto più fortunati ed un po' più anziani di me.


Amore di Dublino

RR: Grazie per la tua disponibilità!



Perdere una voce come quella di Max Manfredi sarebbe un danno enorme. La mia posizione non è neutrale, a conti fatti mi si può definire un suo fan; ma reputo Max uno dei più grandi esploratori dei mille modi espressivi che la canzone può offrire; e uno degli artisti più lucidi e consapevoli che operino sulla scena oggi. Auguro, forse a me prima che a lui, che i nuovi progetti possano avere l'eco che merita. Perché so che questa è un'epoca ingrata per chi fa arte, soprattutto se conscio del proprio ruolo; ma voglio ancora avere la speranza che una voce così grande non finisca per mettersi a tacere. Sarebbe bello se a tenere viva questa speranza contribuissimo tutti. Possiamo iniziare facendoci suoi raisers.
Ringrazio Max per avere dedicato il suo tempo a questo piccolo blog. Ai nostri lettori do appuntamento a presto. E ne approfitto per ringraziarli, perché sono sempre di più.

giovedì 13 giugno 2013

I miei maestri, capitolo 1: Francesco Guccini

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Quando dico che sono un cantautore, mi si chiede spesso che tipo di musica faccio. È una domanda a cui rispondo con difficoltà, perché faccio canzoni che hanno la loro maggior identità nella composizione dei testi, ma che musicalmente e come sonorità spaziano anche di parecchio. Il che è una peculiarità un po' di tutti i cantautori: prendiamo la discografia di De André e cerchiamo di dire che genere faceva. O anche quella di Guccini, che musicalmente si è mosso molto meno, ma che non può certo rimanere rinchiuso nei termini di folk o beat delle origini. A volte però dico proprio “faccio musica beat”, perché è un'espressione antiquata quanto la domanda a cui risponde!
Da quando ho iniziato a frequentare Milano, e ancor di più da quando ci vivo, mi sento dire spesso che ricordo Guccini. Sarà l'accento emiliano, sarà che ho la barba più lunga, sarà che ho i capelli più corti e che per le mie navi son quasi chiusi i porti. L'amico Max Manfredi mi ha detto che secondo lui è per il tipo di versificazione che uso. È possibile, anche se dalla seconda metà degli anni '80 le “parole per verso” del Maestrone si sono moltiplicate in modo esponenziale, (1964, scriveva l'incipit “Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente”; 1987, “Ma come vorrei avere i tuoi occhi spalancati sul mondo come carte assorbenti e le tue risate pulite e piene quasi senza rimorsi o pentimenti”, e via di broncodilatatori) mentre io mi attengo a una metrica più quadrata. Che non è meglio né peggio; anzi no, a giudicare i miei risultati rispetto ai suoi è peggio. Vabbè. Comunque, il discorso che volevo fare all'inizio è che secondo me, per rispondere meglio alla domanda “che musica fai”, vale la pena di spendere due parole per quelli che sono i miei “maestri”. Farò alcuni post, ognuno dedicato a uno di loro. E il primo lo dedico proprio a Francesco Guccini.

francesco guccini

Guccini è stato il primo cantante che ho amato. In casa mia non si ascoltava molta musica, ma mia mamma ascoltava un sacco Guccini. E mi portava anche spesso ai suoi concerti: ne ricordo uno, che devo aver visto proprio da piccino piccino, perché mi addormentai mentre lui suonava. Ed ero stato io a volerlo andare a sentire, perché mia madre mi faceva addormentare cantandomi Il vecchio e il bambino. Che nell'idea di Guccini parlerebbe di una passeggiata in un mondo post-apocalittico. E io mi commuovevo sempre tanto, e piangevo sul finale. E uno fa due più due e si spiega come mai son venuto su così fuori di melone.

Quando iniziai a studiare chitarra classica avevo 12 anni. Mi facevano fare un sacco di esercizi, che solo molto più tardi mi sarei accorto quant'erano utili. Io mi stufavo perché non capivo in che modo fare plin plin plin sulle corde singole mi fosse utile, quando Guccini dava delle mazzate alle corde tutte assieme e faceva delle robe molto più belle. Così mollai il corso dopo due anni. Poi scoprii che quelle “mazzate alle corde tutte assieme” si chiamavano accordi, e che non era così difficile farli. Mi comprai un libretto degli accordi, con tutte le posizioni immaginabili. Mio zio Pietro (che ha fatto la foto di copertina di Testuggini) mi prestò un canzoniere tascabile di Guccini. Passai la prima superiore a studiare l'opus Guccinii anziché le materie di scuola (solo il latino). Le prime volte che suonavo la chitarra in compagnia sapevo fare solo canzoni di Guccini. Questo mi diede presto la possibilità di studiare la chitarra incessantemente senza essere distratto dagli amici.
Rinnovai il repertorio grazie al millenote (che credo sia una pubblicazione clandestina, oltre che fatta un po' con le chiappe, che abbiamo avuto tutti).



rocco rosignoli millenote
Il mio vissutissimo Millenote


Quel millenote è stato il mio libro sacro per un sacco di tempo; assieme a un altro librone di spartiti di Guccini, un po' più accurato di quello su cui avevo imparato i primi pezzi. In quel periodo della mia vita, oltre a suonare quasi esclusivamente Guccini, ascoltavo quasi esclusivamente i suoi dischi (anzi, le sue musicassette). E forse questo, più che l'accento e le altre questioni, spiega come mai io lo ricordi tanto a chi mi sente: è un autore che ho dentro, fin nel profondo. È stato il primo che ho ascoltato in maniera sistematica, dalle sue origini fino ai dischi a me contemporanei. Più tardi spesi paghette su paghette per comprarmi tutti i cd originali (che tra l'altro erano stampati un po' con le chiappe pure quelli, coi libretti che avevan le pagine in sequenza casuale, refusi a go-go, testi tagliati a metà... grazie EMI).

Guccini è stato senz'altro il primo grande maestro da cui ho scelto di imparare. Che poi io ne sia stato in grado è tutto un altro discorso. Da qualche mese si sa che non canterà più. Ma a dirla con sincerità, la cosa mi lascia abbastanza indifferente. L'amore che porto alla sua opera non cambierà, e i suoi dischi sono ancora lì (non più in cassetta, non più in CD, ormai li ho tutti acquisiti su iTunes). Sarà che, come diceva Guccini stesso dall'alto della sua saggezza:

    La canzone è il fatto di un momento, che serve per altri momenti.

Il momento per il quale sono servite a me le sue canzoni è stato intenso, cruciale, decisivo. E se mi piace ciò che sono oggi, il merito va anche a quelle canzoni, che per un adolescente un po' complessato avevano forse più peso delle sagge parole della mamma e dello zio.
Dice ancora Guccini delle canzoni:

    Non ci sono né trascendenze né messaggi; le canzoni sono cose semplici anche se si possono fare ugualmente con molta serietà come ancora spero e mi illudo di fare.

Ora che Guccini ha scelto di non cantare più, vorrei fare mie queste parole, questa speranza, questa illusione. Non per farmi suo erede (magari!), ma per seguire il suo esempio, quello di chi ha costruito un'estetica della canzone nell'arco di una carriera ultracinquantenaria, con intelligenza e saggezza. Senza perdere la semplicità. Spero, in Testuggini, di esserci riuscito.


francesco guccini

Domani, 14 giugno 2013, Francesco Guccini compie 73 anni. Gli faccio i miei auguri e, sperando che gli arrivi, gli mando il mio immenso "grazie".