Quando dico che sono un cantautore, mi si chiede spesso che tipo di
musica faccio. È una domanda a cui rispondo con difficoltà, perché
faccio canzoni che hanno la loro maggior identità nella composizione
dei testi, ma che musicalmente e come sonorità spaziano anche di
parecchio. Il che è una peculiarità un po' di tutti i cantautori:
prendiamo la discografia di De André e cerchiamo di dire che genere faceva. O anche quella di
Guccini, che musicalmente si è mosso molto meno, ma che non può certo
rimanere rinchiuso nei termini di folk o beat delle
origini. A volte però dico proprio “faccio musica beat”, perché è
un'espressione antiquata quanto la domanda a cui risponde!
Da quando ho iniziato a frequentare Milano, e ancor di più da quando ci
vivo, mi sento dire spesso che ricordo Guccini. Sarà l'accento
emiliano, sarà che ho la barba più lunga, sarà che ho i capelli più
corti e che per le mie navi son quasi chiusi i porti. L'amico Max Manfredi mi ha detto che secondo
lui è per il tipo di versificazione che uso. È possibile, anche se
dalla seconda metà degli anni '80 le “parole per verso” del Maestrone
si sono moltiplicate in modo esponenziale, (1964, scriveva l'incipit
“Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non
portano mai a niente”; 1987, “Ma come vorrei avere i tuoi occhi
spalancati sul mondo come carte assorbenti e le tue risate pulite e
piene quasi senza rimorsi o pentimenti”, e via di broncodilatatori)
mentre io mi attengo a una metrica più quadrata. Che non è meglio né
peggio; anzi no, a giudicare i miei risultati rispetto ai suoi è
peggio. Vabbè. Comunque, il discorso che volevo fare all'inizio è che
secondo me, per rispondere meglio alla domanda “che musica fai”, vale
la pena di spendere due parole per quelli che sono i miei “maestri”.
Farò alcuni post, ognuno dedicato a uno di loro. E il primo lo dedico
proprio a Francesco Guccini.
Guccini è stato il primo cantante che ho amato. In casa mia non si
ascoltava molta musica, ma mia mamma ascoltava un sacco Guccini. E mi
portava anche spesso ai suoi concerti:
ne ricordo uno, che devo aver visto proprio da piccino piccino, perché mi addormentai mentre lui suonava.
Ed ero stato io a volerlo andare a sentire, perché mia madre mi faceva
addormentare cantandomi Il vecchio e il bambino.
Che nell'idea di Guccini parlerebbe di una passeggiata in un mondo
post-apocalittico. E io mi commuovevo sempre tanto, e piangevo sul
finale. E uno fa due più due e si spiega come mai son venuto su così fuori di melone.
Quando iniziai a studiare chitarra
classica avevo 12 anni. Mi facevano fare un sacco di esercizi, che solo
molto più tardi mi sarei accorto quant'erano utili. Io mi stufavo
perché non capivo in che modo fare plin
plin plin sulle corde singole mi fosse utile, quando Guccini
dava delle mazzate alle corde tutte assieme e faceva delle robe molto
più belle. Così mollai il corso dopo due anni. Poi scoprii che quelle “mazzate alle corde tutte assieme” si
chiamavano accordi, e che non
era così difficile farli. Mi comprai un libretto degli accordi, con
tutte le posizioni immaginabili. Mio zio
Pietro (che ha fatto la foto di copertina di Testuggini) mi prestò un canzoniere
tascabile di Guccini. Passai la prima superiore a studiare l'opus Guccinii anziché le materie di
scuola (solo il latino). Le prime volte che suonavo la chitarra in
compagnia sapevo fare solo canzoni di
Guccini. Questo mi diede presto la possibilità di studiare la
chitarra incessantemente senza essere distratto dagli amici.
Rinnovai il repertorio grazie al millenote (che credo sia una
pubblicazione clandestina, oltre che fatta
un po' con le chiappe, che abbiamo avuto tutti).
Il mio vissutissimo Millenote
Quel millenote è stato il mio libro
sacro per un sacco di tempo; assieme a un altro librone di
spartiti di Guccini, un po' più accurato di quello su cui avevo
imparato i primi pezzi. In quel periodo della mia vita, oltre a suonare
quasi esclusivamente Guccini, ascoltavo quasi esclusivamente i suoi
dischi (anzi, le sue musicassette).
E forse questo, più che l'accento e le altre questioni, spiega come mai
io lo ricordi tanto a chi mi sente: è un autore che ho dentro, fin nel
profondo. È stato il primo che ho ascoltato in maniera sistematica,
dalle sue origini fino ai dischi a me contemporanei. Più tardi spesi
paghette su paghette per comprarmi tutti i cd originali (che tra l'altro
erano stampati un po' con le chiappe
pure quelli, coi libretti che avevan le pagine in sequenza casuale,
refusi a go-go, testi tagliati a metà... grazie EMI).
Guccini è stato senz'altro il primo grande maestro da cui ho scelto di
imparare. Che poi io ne sia stato in grado è tutto un altro discorso.
Da qualche mese si sa che non canterà più. Ma a dirla con sincerità, la
cosa mi lascia abbastanza indifferente. L'amore che porto alla sua
opera non cambierà, e i suoi dischi sono ancora lì (non più in
cassetta, non più in CD, ormai li ho tutti acquisiti su iTunes). Sarà che, come diceva
Guccini stesso dall'alto della sua saggezza:
La canzone è il fatto di un momento, che
serve per altri momenti.
Il momento per il quale sono servite a me le sue canzoni è stato
intenso, cruciale, decisivo. E se mi piace ciò che sono oggi, il merito
va anche a quelle canzoni, che per un adolescente un po' complessato
avevano forse più peso delle sagge parole della mamma e dello zio.
Dice ancora Guccini delle canzoni:
Non ci sono né trascendenze né messaggi; le
canzoni sono cose semplici anche se si possono fare ugualmente con
molta serietà come ancora spero e mi illudo di fare.
Ora che Guccini ha scelto di non cantare più, vorrei fare mie queste
parole, questa speranza, questa illusione. Non per farmi suo erede
(magari!), ma per seguire il suo esempio, quello di chi ha costruito
un'estetica della canzone nell'arco di una carriera
ultracinquantenaria, con intelligenza e saggezza. Senza perdere la
semplicità. Spero, in Testuggini,
di esserci riuscito.
Io ricordo ancora quando imparasti "Venerdì Santo"...come mi piaceva e come era piaciuta alla nonna Rosa!
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